Un clero per la «città nuova»

PREFAZIONE

Un clero per la «città nuova»

Posted on 4 Maggio 2017

di Augusto D’Angelo

Littoria, dal punto di vista storico, rappresenta un osservatorio interessante per molti motivi. È il centro di uno dei territori in cui il regime fascista sperimenta la sua progettualità da un punto di vista geografico, demografico ed urbanistico. Vi si avvia la trasformazione profonda di un territorio, con la bonifica dell’Agro pontino, con il trasferimento di popolazioni da altre zone d’Italia per la sua colonizzazione, con la creazione di una serie di nuovi agglomerati urbani.

Dobbiamo alla serietà della ricerca di Clemente Ciammaruconi un nuovo interessante ed approfondito contributo sulla presenza salesiana in questa realtà. Egli, nella sua già vasta produzione che riguarda prevalentemente l’ambito della storia sociale e religiosa, aveva già indagato il ruolo dei Salesiani che interagiscono con la trasformazione del territorio da parte del regime cercando di assicurare l’assistenza religiosa nella zona della bonifica a partire dal 1933. Il suo primo libro sul tema (Un clero per la «città nuova». I Salesiani da Littoria a Latina. I. 1932-1942. Roma 2005) ha rappresentato un contributo considerevole e ricco di spunti di interesse.

Questo nuovo volume ripercorre ora le fasi successive della presenza dei Salesiani che furono chiamati a garantire l’assistenza pastorale a Littoria da Pio XI proprio quando la regione pontina stava trasformandosi attraverso la bonifica integrale e la “città nuova” era appena un progetto in via d’iniziale realizzazione. Dapprima ci fu una parziale resistenza ad accettare la “missione”, ma nell’ottobre del 1933 i Salesiani accolsero l’invito del papa e si stabilirono nella cittadina in costruzione. Non era una situazione facile. Il territorio dipendeva dalla diocesi di Velletri e il clero diocesano non contava membri disposti a stabilirsi nell’Agro. La cura pastorale dei fedeli dispersi nei poderi gradualmente sottratti alla palude era affidata al parroco di Cisterna, ma le necessità erano superiori alle sue forze. La popolazione cresceva rapidamente per l’arrivo dei coloni, sparsi in una zona molto vasta.

All’inizio, la comunità salesiana che si stabilì nel territorio ammontava a cinque membri, i quali subito si affaccendarono per organizzare la cura pastorale a Littoria e in cinque borghi della zona che distavano dal principale centro abitato dai sette ai dieci chilometri.

La gran parte dei coloni proveniva dal Veneto e desiderava che ogni borgo avesse una presenza permanente del sacerdote. Il cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Velletri era all’epoca Enrico Gasparri, nipote di Pietro Gasparri il segretario di Stato che aveva firmato i Patti Lateranensi con il regime. Fu anche per rispondere a tali esigenze pastorali che il cardinale Enrico Gasparri scelse come vescovo residente un Salesiano, mons. Salvatore Rotolo, il quale in pochi anni riorganizzò la presenza del clero, assicurando la nascita, oltre che della parrocchia di S. Marco a Littoria, anche l’istituzione di altre cinque parrocchie nei borghi dei dintorni. In breve, i religiosi salesiani finirono per aumentare a sette sacerdoti e due fratelli consacrati.

Le fonti che Ciammaruconi esplora con diligenza ci mostrano una comunità religiosa sensibile alla propaganda del regime. Si tratta di una vicenda nota per ampie fasce della Chiesa italiana e che, all’epoca, solo pochi osservatori ecclesiastci guardavano con diffidenza. Tra questi, un ufficiale della Segreteria di Stato che scriveva a proposito dell’atteggiamento di clero ed episcopato nei confronti della guerra condotta in Etiopia dal governo fascista:

 “E il clero? Questo è il disastro più grande. Il clero deve essere calmo, disciplinato, obbediente ai richiami della Patria; è chiaro. Ma invece questa volta è tumultuoso, esaltato, guerrafondaio. Almeno si salvassero i Vescovi. Niente affatto. Più verbosi, più eccitati, più… squilibrati di tutti. Offrono oro, argento puri: anelli, catene, croci, orologi, sterline. E parlano di civiltà, di religione, di missione dell’Italia in Africa […]. Difficilmente poteva compiersi nelle file del clero un confusionismo, uno sbandamento, un disquilibrio più gravi e più pericolosi”.

Si trattava di Domenico Tardini, che poi sarebbe divenuto stretto collabora­tore di Pio XII e segretario di Stato di Giovanni XXIII.

Tuttavia, quando il regime sceglie di affiancare la Germania nazista in guerra, la distanza crescente si registra sia nelle cronache della casa salesiana sia nelle direttive dei vertici della famiglia religiosa. E man mano che il conflitto procede e le sue sorti cambiano, vengono annotati i segnali di una divaricazione sempre più profonda. Nel giugno 1943, in una chiesa di S. Marco affollatissima per la festa del Corpus Domini, “molto commentata e biasimata fu l’assenza completa delle autorità politiche e amministrative” della città. La mancata partecipazione di tutte le maggiori cariche istituzionali – che pure erano state invitate – dimostra come oramai i rapporti tra regime e mondo cattolico fossero logorati.

Dopo 1’8 settembre, sotto la minaccia dei rastrellamenti tedeschi, sono i Salesiani a raggiungere le case coloniche per avvertire i capifamiglia ed i ragazzi in età da lavoro di non farsi vedere a Littoria. E subito dopo lo sbarco di Anzio, ancora loro indicano la speranza del popolo per un rapido arrivo delle truppe alleate che liberi la città.

L’esperienza della guerra della comunità salesiana è quella registrata in molte altre realtà. I religiosi restano col popolo sotto i bombardamenti e sfollano con gli ultimi quando Littoria viene abbandonata. Trovano ricovero a Roma, ma sono anche tra i primi a tornare nel capoluogo pontino non appena l’Urbe viene liberata e possono muoversi verso Sud. Roma è libera il 4 giugno del 1944, don Carlo Torello ed i suoi tornano già il 6 giugno a Littoria – di lì a poco rinominata Latina — e trovano solo distruzione. La fase della ricostruzione è ancora lontana; prima c’è da sfamare la gente che ritorna in città e che non ha nulla. È l’espe­rienza della mensa, che distribuisce fino a 1.200 minestre al giorno. Ma è anche la stagione dell’epurazione che i Salesiani vogliono rendere meno dolorosa possibile: già la guerra è stata una punizione sufficiente, secondo don Torello. Egli entra nel Comitato di liberazione, chiamato ad istruire i dossier sugli epurandi e ad emettere un giudizio sulla loro condotta. Opera con saggezza conducendo anche gli altri membri a posizioni di clemenza e ragionevolezza.

Ciammaruconi ricostruisce con cura anche le prime vicende politiche del dopoguerra. A Latina, l’iniziale nucleo democristiano nasce senza collegamenti con gli organi centrali del partito. Ne fanno parte alcuni cattolici impiegati nelle istituzioni pubbliche, esponenti delle professioni, membri dell’associazionismo cattolico. Ad essi il parroco e la comunità salesiana forniscono un tetto, una guida, consigli e sostegno aperto. Ma le prime consultazioni elettorali non sono positive. Nelle amministrative della primavera del 1946 si affermano i repubblicani come primo partito, avendo utilizzato come candidati alcuni tecnici della rete di bonifica capaci di catalizzare il consenso dei coloni; la DC è solo il secondo partito col 32%. Lo stesso avviene il 2 giugno, con ampia affermazione per la Repubblica e nuovo successo elettorale del PRI.

La DC inizia a risalire la china con la nomina a segretario provinciale di Vittorio Cervone, già allievo salesiano a Gaeta. Spetta a lui riorganizzare la DC che nel 1948, quando la battaglia è campale, porta il partito al 5 1% in città e al 54% nella provincia. Cervone, inoltre, si adopererà perché Maria Goretti — la giovane beatificata nel 1947 e canonizzata nel 1950 — divenga patrona di Latina, la qual cosa Pio XII concederà ne11952.

E proprio Maria Goretti, assieme a Domenico Savio, rappresenta il modello che la comunità salesiana propone ai giovani: la “martire delle Paludi pontine” viene presentata come simbolo della purezza. In fondo, anche se appare una forzatura affermare che l’allora segretario della Federazione giovanile comunista italiana, Enrico Berlinguer, l’avesse indicata come modello alle giovani comuniste, egli nel 1951 aveva paragonato la partigiana Irma Bandiera — torturata a morte dai nazisti per non aver tradito i suoi compagni — proprio alla santa che si era fatta uccidere per difendere la verginità, citando entrambe come esempi di virtù delle ragazze italiane. Della ricezione integrata di quell’accostamento è una testimonianza, tra l’altro, una recente intervista a Luciana Castellina[1].

In Domenico Savio, il giovane studente salesiano morto adolescente, si indicavano invece come esemplari la gioia, l’impegno nei doveri di studio e di preghiera, la scelta di fare del bene.

I primi anni Cinquanta vedono anche a Latina l’affermazione di un modello di educazione giovanile che molti di coloro che sono cresciuti nel secondo dopoguerra ricordano: la vita dell’oratorio, la preghiera, la proposta dello scoutismo, il cinema parrocchiale, l’educazione ad una comunione di intenti.

Tra l’altro, in quel periodo Latina diviene anche approdo per parte della popolazione che dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia fu costretta ad abbandonare la propria terra. Il capoluogo pontino venne infatti individuato come una delle località nelle quali istituire in breve tempo centri di accoglienza capaci di ricevere centinaia di persone costrette all’esodo. Un campo, istituito a partire dal marzo 1947, accolse più di mille profughi giuliano-dalmati che, dopo essere stati a lungo alloggiati nell’ex caserma dell’82° Reggimento di Fanteria, dal 1956 ricevettero finalmente una migliore sistemazione in un quartiere apposito a loro destinato, il cosiddetto “Villaggio Trieste”. E la data non è irrilevante, perché da allora il campo fu destinato ad accogliere i profughi che arrivavano dall’Ungheria fuggendo dalla repressione dell’Armata Rossa. L’azione della comunità salesiana in quegli anni si arricchì quindi di un inedito campo d’azione ed assistenza spirituale, su un terreno che oggi è tornato di drammatica attualità.

La storia della Chiesa è anche vicenda di comunità concrete, legate ad un territorio, e quella nell’Agro pontino, che Ciammaruconi ha analizzato con capacità di indagine e fedeltà alle fonti, è caratterizzata anche dall’intreccio appassionante della sorte della famiglia salesiana con una porzione di società italiana in profonda trasformazione. L’autore ha ripercorso in questo volume quell’intreccio in maniera documentata, profonda e, soprattutto, appassionata. Per questo le sue pagine meritano la nostra grata attenzione.

[1] Si veda l’intervista alla giornalista e parlamentare comunista in Emiliano Sbaraglia, Ideario Berlinguer. Passioni e parole di un leader scomodo. Con un’intervista a Luciana Castellina. Roma 2014.

POSTFAZIONE

di Francesco Motto

I Salesiani, tanto nella Società civile che ecclesiale, da 150 anni si qualificano particolarmente come educatori di giovani. Nell’ambito educativo, infatti, si collocano la maggior parte delle presenze salesiane in Italia e nel mondo.

La prima e forse più originale di tale opere è l’oratorio, vale a dire quell’ambiente aperto a tutti i minori, che favorisce l’incontro fra loro e con gli educatori, a tempo pieno o parziale. Inizialmente era uno spazio in cui, accanto a momenti ricreativi, si insegnava il catechismo ai giovani “poveri ed abbandonati” senza parrocchia: un’opportunità pedagogica unica nel suo genere, nella quale si riflettevano le situazioni e i problemi del momento. Successivamente si trattò di andare al­la ricerca e di sostenere i giovani nel loro stesso ambiente di vita, nonché di offrir loro spazi sicuri, di apertura, di protezione e di formazione integrale. Esso era caratterizzato tanto dall’accentuazione della vita pastorale festiva, della ricreazione e del tempo libero attraverso il gioco, la musica e il canto, il teatro, quanto dal rapporto spontaneo ed informale fra educatori ed educandi. In seguito, lungo i decenni, la grande plasticità dell’oratorio salesiano ha portato a una notevole versatilità e a una differenziazione delle sue modalità organizzative, fino a prendere la forma di un progetto educativo-pastorale vero e proprio.

Una seconda area di impegno dei Salesiani, dopo quella giovanile, comprende opere che possono considerarsi più immediatamente di carattere pastorale: vale a dire le parrocchie, i santuari, le chiese pubbliche e semipubbliche. La precedenza è ovviamente data alle “parrocchie popolari”, solitamente nelle periferie delle città, che hanno offerto opportunità religiose per famiglie operaie ricche di figli; ovvero alle “parrocchie giovanili” con apprendisti non residenti, studenti, militari, emigranti di altre regioni, ossia giovani sradicati da ogni struttura familiare, civile e religiosa che in qualche modo avrebbero potuto mettere a rischio la loro fede.

Ebbene l’opera dei Salesiani a Littoria-Latina, parrocchia e oratorio, sorta mezzo secolo dopo la morte di don Bosco, si è posta come splendida realizzazione di tale binomio in tempi di certo non facili, come quelli del fascismo, della seconda guerra mondiale, della ripresa postbellica. Il loro modello educativo-pastorale si è sviluppato trovando un proprio significativo ruolo all’interno di un regime che tendeva a restringere gli spazi di libertà, o di fronte all’assenza di uno Stato sociale che provvedesse ai più bisognosi, in attiva collaborazione se non in onesta concorrenza con altre forze intente a ricostruite un tessuto sociale sfilacciatosi lungo gli anni. Uno sforzo, quello salesiano, volto a creare una società migliore attraverso l’educazione “integrale” della gioventù e l’assistenza religiosa alle popolazioni, in stretto rapporto — amichevole, o talvolta anche conflittuale — con autorità civili ed ecclesiali.

Le iniziative salesiane di concreta risposta ai bisogni della comunità di Latina, sia in funzione di supplenza che di collaborazione con lo Stato e con la Chiesa, hanno altresì innescato in entrambe le istituzioni una dinamica favorevole ad una maggiore attenzione ai giovani, alla loro educazione e formazione, alla loro socia­lizzazione e promozione, ossia al loro futuro e, di conseguenza, al futuro della società italiana.

Come sottolineava Francesco Traniello 25 anni fa nella postfazione ad un volume sulla casa salesiana di Forlì in occasione del suo cinquantesimo (1942-1992), non è facile percorrere con rigore storico la vicenda di un’opera salesiana perché implica misurarsi in primo luogo con la storia, per così dire, ” integrale”, a tutto tondo, della comunità e del territorio nel quale i Salesiani si sono via via inseriti e su cui, in forza della loro singolare dote di plasmabilità, hanno comunque lasciato la propria impronta. Se un simile giudizio vale un po’ per tutte le case, vale forse più ancora per l’opera salesiana di Latina, che è sorta ed è cresciuta, ha gioito e sofferto, in simbiosi con la città, alla quale ha offerto il meglio che salesianamente aveva a disposizione, pur in mezzo ad immancabili debolezze, ripiegamenti e ritardi.

La storia raccontata in due volumi da Clemente Ciammaruconi con singolare capacità di “far parlare” le fonti scritte ed orali, ricercate con certosina pazienza, ne è la prova provata. Ulteriori approfondimenti potranno comunque trovar spazio, specialmente riguardo alla vita interna della comunità salesiana, alla sua spiritualità e pedagogia in contesto, ai singoli salesiani, perché si tratta sempre di una storia corale, anche se alcune figure giocano ruoli particolarmente importanti; lo stesso si dica della comunità ecclesiale e civile. Tutti, però, dovranno in qualche modo confrontarsi con questi suoi due testi che da oggi sono a disposizione dei lettori e che arricchiscono la collana Studi dell’Istituto Storico salesiano. Storiograficamente, poi, un omaggio forse più bello non si poteva fare in occasione del cinquantesimo della morte del principale protagonista degli avvenimenti in essi rievocati, don Carlo Torello (1886-1967).